Ho una passione vera per l’America Latina. Da vent’anni ormai approfitto dei giorni di ferie per scoprirla con la presunzione di essere un viaggiatore e non un turista. Vacanze zaino in spalla, spagnolo imparato a forza di parlare con le persone, amicizie nate a Cuba, in Argentina, in Ecuador…ho sempre pensato che questo Continente avesse delle straordinarie potenzialità, una storia segnata da presenze imposte e spesso scomode e una umanità capace di emozionare. Con queste idee sono tornata per la 4 volta in 8 anni in Guatemala. Un paese che mi ha sempre affascinato per la forza “resistente” della cultura maya e che mi ha sempre colpito per la povertà estrema mostrata senza imbarazzo, per l’umiltà che porta la gente ad abbassare lo sguardo quando “noi” chiediamo anche solo un’informazione.
Sono arrivata in un paesino del Peten, regione del cuore del Paese, con l’idea di fare attività con i bambini. Da turista a viaggiatrice da viaggiatrice a volontaria. Un modo come un altro per avvicinarsi sempre di più ad una realtà che forse fino ad oggi avevo solo intuito. Ho voluto giocare facile: avvicinare i bambini è un’operazione tutto sommato semplice. I filtri da superare sono pochi, pochissimi. Così, con un gruppetto di altre tre persone, abbiamo immaginato delle attività. Niente di complicato, niente che avesse un fine alto. Attività che riempissero i loro pomeriggi caldissimi anche se spesso attraversati da improvvisi scrosci d’acqua. E’ facile ingaggiare i bambini. Che uno insegni a fare i biscotti o li spinga a confrontarsi nelle sperimentatissime corse con i sacchi, ruba-bandiera o caccia al tesoro, il risultato è sempre un sorriso grato e un “ancora!” alla fine del gioco.
I bambini sono uguali a tutte le latitudini e il gioco è sempre uno strumento potentissimo di aggregazione. Ma intorno a loro? In questo Paese, nella sua capitale, nei luoghi più turistici dove non è difficile trovare boutique hotel o ristoranti di ottimo livello, spaventa la quantità di persone per le quali evidentemente non c’è futuro. I tanti ragazzi per strada – da noi andrebbero a incrementare la percentuale dei cosiddetti NEET – le tante donne che, cariche di tessuti, cercano di vendere qualcosa al turista di turno. Non ci sono gruppetti di bambini e ragazzi in divisa (come a Cuba o in Bolivia) ad indicare la frequenza di una scuola e, in generale, la sensazione è quella di un Paese in cui l’educazione non sia il necessario punto di partenza dello sviluppo a cui tutti hanno diritto. Eppure è un paese ad altissimo tasso di presenza di ONG. Ma tutto questo ha senso? Lavorare, investire risorse ed energie per portare e sviluppare progetti anche bellissimi, anche molto interessanti, che senso ha se non esiste una politica-paese che sposi l’idea dello sviluppo attraverso l’educazione e creda davvero in questo relazione semplice ma obbligata tra educazione e crescita?
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